
Pensavo non fosse per me. Oggi non ne farei più a meno.
“Mi sembrava troppo rigido.”
“Pensavo fosse violento.”
“Non mi ci vedevo proprio.”
Sono frasi che sentiamo spesso da chi si avvicina al Karate per la prima volta.
Persone di tutte le età, con storie diverse, ma con un tratto comune: l’idea iniziale che il Karate non facesse per loro.
Poi, qualcosa cambia.
Si entra in Dōjō.
Si indossa il karategi.
Si prova a ripetere un gesto.
E si scopre che non è questione di essere “portati”.
È questione di lasciarsi guidare da un gesto che ti riporta a te stesso.
La sorpresa di chi comincia
Chi inizia spesso si stupisce:
“Non pensavo di riuscire a farlo.”
“Non sapevo che mi sarebbe piaciuto così tanto.”
“È molto più profondo di quello che immaginavo.”
È una sorpresa che nasce dal corpo, prima ancora che dalla testa.
Perché il Karate non chiede di capire tutto subito, non pretende una performance.
Ti chiede solo di esserci. Di osservare. Di muoverti.
E nel tempo, quel gesto che all’inizio sembrava estraneo, diventa parte di te.
Come scrive lo psicoterapeuta Alexander Lowen, fondatore della bioenergetica:
“Ogni movimento consapevole ci riconnette alla nostra identità profonda.”
Dal giudizio alla scoperta
Per molti, il primo ostacolo è mentale.
Il timore del giudizio, del confronto, del “non essere capaci”.
Ma il Dōjō è un luogo senza spettatori.
Nessuno è lì per guardare l’altro.
Ognuno è lì per camminare nel proprio ritmo.
La cultura del confronto lascia spazio alla cultura del cammino.
E proprio per questo, chi pensava di non farcela, spesso scopre di esserci più pienamente degli altri.
Quando il corpo diventa casa
Il Karate non ti trasforma in qualcun altro.
Ti aiuta a tornare in contatto con chi sei davvero.
Attraverso la ripetizione del gesto.
Attraverso il rispetto delle regole.
Attraverso il silenzio che non è assenza, ma attenzione.
Molte persone che hanno praticato attività fisiche in passato scoprono nel Karate una qualità diversa:
non lo “sforzo per ottenere”, ma la presenza nel fare.
Secondo la psicologa Amy Cuddy, nota per i suoi studi sul linguaggio del corpo:
“Il modo in cui teniamo il nostro corpo influenza profondamente il modo in cui sentiamo noi stessi.”
Nel Dōjō, ogni gesto — un pugno, un passo, un inchino — diventa un modo per abitare meglio sé stessi.
Un percorso per chi non ha mai avuto “un posto”
C’è anche chi arriva nel Dōjō dopo molte esperienze frammentate:
Sport iniziati e mai finiti.
Attività fatte per dovere.
Percorsi lasciati a metà.
Nel Karate trovano qualcosa di diverso: un senso di continuità.
Un ambiente stabile, strutturato, accogliente.
Un luogo dove non si è “in prova”, ma in cammino.
E quella continuità, nel tempo, diventa una forma di identità nuova:
non più “non sono portato”. Ma:
“Sto imparando. Sto migliorando. Sto trovando qualcosa che mi fa bene.”
Forse non è per tutti. Ma può essere per te.
Se hai pensato che il Karate fosse troppo tardi per te, o troppo distante…
Se hai avuto brutte esperienze con lo sport…
Se cerchi un ambiente serio ma accogliente…
Il Dōjō Tōkōn è aperto anche a te.
E non serve sapere come andrà. Basta iniziare a camminare.
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“Non serve sentirsi pronti. Serve solo scegliere di esserci. Il resto si impara praticando.”