Correggere o accompagnare

Correggere o accompagnare? Il Maestro osserva, poi agisce

July 01, 20253 min read

Un allievo esegue un movimento in modo impreciso.

Il primo istinto di molti è quello di correggerlo subito: “Fermati. Guarda. Devi fare così.”

Ma insegnare non è correggere.

È accompagnare

E nel Karate, come nella vita, non si cresce perché qualcuno ci dice cosa fare.

Si cresce quando ci si sente osservati con attenzione e guidati con rispetto.


L’importanza di saper osservare

Secondo il pedagogista Philippe Meirieu, uno dei più autorevoli esperti di didattica attiva,

“Insegnare significa creare situazioni in cui l’allievo possa apprendere. Non trasmettere sapere, ma facilitare la comprensione.”

Nel Dōjō questo significa una cosa semplice, ma profonda:

il Maestro non è lì per dimostrare quanto è bravo, ma per capire dove si trova l’allievo e offrirgli il passo giusto per andare avanti.

 E per capirlo, deve osservare prima di intervenire.

  • Osservare il corpo: dove si irrigidisce, dove perde il ritmo.

  • Osservare lo sguardo: se è disperso, acceso, in attesa.

  • Osservare l’energia: se sta trattenendo, se sta fuggendo, se sta cercando.

Questa osservazione richiede presenza e sensibilità.

E molto spesso, il gesto da fare non è una correzione tecnica. È un incoraggiamento. O un silenzio che lascia spazio all’intuizione.


Non tutti imparano nello stesso modo

Ogni allievo ha il suo ritmo. La sua storia. La sua modalità di apprendere.

C’è chi impara guardando, chi facendo, chi provando e riprovando.

C’è chi ha bisogno di tempo, e chi ha bisogno di fiducia.

Nel 1983, Howard Gardner, psicologo dell’educazione, teorizzò le intelligenze multiple: linguistica, logico-matematica, cinestetica, interpersonale…

Applicare questo al Karate significa riconoscere che la tecnica non entra allo stesso modo in ogni allievo.

E il compito del Maestro non è trasmettere “una lezione uguale per tutti”, ma creare un ambiente in cui ciascuno possa trovare il proprio modo per farla propria.


Il gesto come specchio dell’allievo

Il corpo non mente. Quando un allievo sbaglia un movimento, non è solo la tecnica a mancare.

Spesso c’è insicurezza, fretta, tensione, bisogno di approvazione.

Il gesto allora diventa una porta aperta.

E il Maestro che osserva non giudica, non etichetta.

Coglie il momento giusto per intervenire.

Con un tocco. Una parola. Un’occhiata. Un esempio. 

E così, l’insegnamento non è più un trasferimento. È una relazione viva.

Come scrive il pedagogista Daniele Novara

“La correzione funziona solo se c’è un contesto di fiducia. Se correggi troppo presto, chiudi la porta all’apprendimento.”

 

Nel Karate, questa porta resta aperta solo se c’è attenzione autentica.

Solo se l’allievo si sente visto nella sua interezza, non solo nel suo errore.


Il Maestro che guida non impone

Chi insegna Karate con questa mentalità non cerca il gesto perfetto come fine, ma lo usa come stimolo di miglioramento.

Cerca la progressione vera.

Cerca di far emergere dall’allievo qualcosa che già c’è, ma ancora non è formato.

E in questo, il Maestro resta sempre anche allievo:

osserva, si adatta, si mette in discussione, affina il proprio modo di accompagnare.

Non è colui che corregge tutto.

È colui che sa quando è il momento giusto per agire. E quando è meglio lasciar fare.


Formare significa prima di tutto vedere

Nel Dōjō Tōkōn, chi insegna lo fa con attenzione.

Non perché vuole formare atleti perfetti.

Ma perché desidera accompagnare persone che crescono nel gesto, nella mente e nel carattere.

 

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“Un buon Maestro non si riconosce da quanto corregge. Ma da quanto riesce a vedere chi ha davanti.”

 

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